1. |
Il Bipede eretto
07:35
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IL BIPEDE ERETTO.
Tutto ha sotto al cielo una sua ora il tempo suo
Il tempo di nascere il tempo di morire
Il tempo di spiantare il tempo di piantare
Il tempo di uccidere e il tempo di curare
Il tempo di demolire il tempo di costruire
Cammino e calpesto, vendo e compro, scarto, trattengo,
l’asfalto è bollente, le gomme delle auto sciolgono e sporcano di petrolio
prati e aiuole,
il giorno, quello della luce tenebra si scioglie, di liquido sudore,
l’operaio costruisce case crollate consumate alla nascita,
elettroni, quanti, piccole schegge di buio lucente, s’annidano nella plastica,
Il tempo delle lacrime e il tempo delle risa
Il tempo dei gemiti e il tempo dei balli
Il tempo delle pietre scagliate il tempo delle pietre raccolte
Il tempo delle braccia abbracciate il tempo delle braccia lontane
algoritmi che hanno facce avatar, replicanti, mutanti squamosi s’annidano come serpi
striscianti, della mela di Eva, del dio arido e crudele,
del sangue mensile, puntuale come un virus.
Potrei aggrapparmi al terminale, succhiare acidi like sociali, partecipare, connettermi,
la vecchia arde, la sua malattia è clamore, il suo silenzio tempesta,
la bottiglia pare flettersi come la schiena curva di cibo avariato e cartoni, e pensione assente,
presente l’incuria dell’umano perseguire.
Cammino, le gambe molli tentano una danza virtuale,
ostento sorrisi photoshoppati, un selfie, come se fossi altrove, non qui e ora.
Entro trionfante , supermarket, tante cose, luminose,
sogni consumati, usati, sogni incatenati, di plastica bruciata,
la gru scavalca palazzi frantumati, con botti di cemento grasso,
l’ambulanza fischia estrema, l’ultima ora, il sociale s’avvinghia, un clistere di acido,
natiche abbronzate, viaggi, ibiza, balli, aperitivi,
L’homo erectus bipede, encefalo in crescita, neuroni futuranti,
semafori verdi, ma immobile il proseguire, sviluppo evolutivo assente,
devo bere, alcol, drogarmi, con valium, e altro pur di spegnere, la mente,
io non sono qui, non faccio parte di questo delirio inumano,
lo so, eppure ghiaccio violenta la mia anima assetata,
eppure lacrimo costante paura, da occhi spenti come l’aurora del vespro,
so d’essere un deserto ambulante, come lo zingaro senza terra, dalla casa viaggiante,
su ruote dal cuore amaro, come se novembre avesse radici che salgono dai piedi alla gola,
Il tempo di tacere il tempo di parlare
il tempo di amare e il tempo di odiare
Il tempo della guerra il tempo della pace
Domani, quel domani di quel bambino della ,memoria,
che sarà di lui anima gentile, mite carezza di luce,
che acciaio, grida, asfalta prati morti la furia crescente del bipede eretto,
che rifiuti di consumo dissennato appestano afriche e mari di sangue,
che scorie umane, si mostrano senza dignità, socializzano tra loro,
e ci appestano come pedofili assassini che stuprano la bellezza dell’amore.
Disse il saggio c’è un tempo per ogni cosa
Disse la madre terra c’è un tempo per mandare il bipede eretto a farsi fottere!
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2. |
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IL SAPIENTE CHE DICE DI SAPERE.
Ogni violenza compiuta sotto al sole la vidi
E lacrime di oppressi nessuno le addolciva
E violenze di oppressori nessuno le frenava
I morti perché morti io lodo
I vivi no perché vivi
E tra di loro è felice chi ancora non è stato
E il male non ha veduto che sotto al sole facciamo.
E vidi in tanto penare in tanto sforzo essere invidiarsi ciascuno
Forse anche questo è vento che ha fame vento che ha fame.
Sono perverso di schiuma il verso che scende marea composta di mare secco,
come la lacrima che dal video frigge e si disconnette.
Dove la pena che il virtuale soccombe nel reale e viceversa,
sono il niente e di niente mi vesto calpesto, strade di niente,
entro in bar squallidi che versano niente in bicchieri di cobalto,
ossimorica fobia che striscia,
come mano artiglio che perso ha lo sfiorare,
oh sapessi ancora baciare e braccia abbracciare,
sconosciuti fiordi divampano,
dove giaccio brucia cuore o anima,
che fumo soffia come respiro rotto,
non calpestare le righe sussurro da bimbo,
case veleno festa, l’ossimoro che le intenzioni lo schermo sussurra,
io vedo l’ologramma, mi ci tuffo e sono io lo specchio, che,
riflette un mare di niente,
ed è gente, il file è corrotto, in conflitto con il sistema,
non c’è antivirus così potente da cancellare il virus del dolore.
E tutto vidi, nella creazione di Dio,
ma ogni cosa che esiste a tutto quello che accade sotto al sole,
un senso l’uomo non riesce a dare,
ne sopra gli uomini s’affaticano senza poter trovare, ed il sapiente che dice di sapere,
neppure lui ha trovato.
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3. |
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AVVINGHIATI AD UN ALGORITMO.
Tutto coincide, l’esplosione, il silenzio,
o quiete al di la del concetto stesso di silenzio,
ma non è pace il silenzio dei vinti.
Pulviscolo tra le onde di luce,
materia stagnante, la creazione,
la stessa anima che muore.
Mari di plastica, foreste di cemento,
macelli insanguinati.
Atlantide è già sprofondata, con raggi di luce e schegge di buio,
Babilonia giace tra vermi e memoria svanita.
La Siria trasuda sangue, l’Iraq sventrato,
mentre esplodono i Budda giganti in Afghanistan.
Arabi sceicchi santi affogano tra petroldollari e letame,
le donne loro annaspano sotto il tallone di un dio crudele.
In questa terra esplosa, navighiamo in un benessere da cartolina,
la civiltà nucleare ed informatica cerca il pomodoro di plastica,
naviga con lucenti cellulari parlanti e pensanti,
l’anima è un oscuro algoritmo impalpabile.
Camion di rifiuti percorrono strade avvelenate,
nascosti nell’orto vicino a casa,
diserbanti straziano tutto ciò che vive,
ed entrano nei piatti della tavola imbandita a festa.
Umani come scorie radioattive consumano il consumabile,
il mercato boccheggiante si trucca con rossetti e catrame,
pare danzare tra numeri e borse assassine,
crollano mondi di fabbrica e le sequoie, e i boschi le valli.
L’occidente grande impero del niente,
senza memoria, avvinghiato a fascismi eterni,
anime dal razzismo innato,
è finito il tempo delle identità che come numeri primi danzavano la vita,
siamo codici binari, ologrammi di noi stessi,
avvinghiati ad un algoritmo.
Non è pace il silenzio dei vinti, semplicemente un grido muto.
Visto tutto capito tutto..Qoelhet..
Visto tutto capito tutto..Qoehelet.
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4. |
Moto perpetuo
10:37
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MOTO PERPETUO.
Il sole stanco lavoratore che dal mattino alla sera
Corre e s’affanna per ricominciare daccapo
Un orbita fissa e monotona la condizione umana,
Calpestai la terra del niente, avido e potente
Scivolai in immense distese di niente.
Sveglia uscire lavorare produrre migliorare progresso esso esso
Toccarsi essere tanti, amarsi se c’è tempo tempooooo
Please inserire altri dati, informazioni insufficienti,
dimensioni etiche e antropologiche, cosmiche,
dove aggrovigliate sono le insicurezze le miserie dell’uomo.
Una generazione passa via, una generazione entra,
su una terra eternamente ferma,
Galileo, Galileo, la comprensione di questa metafisica affermazione,
ti ha perseguitato, la massa ingloba, il pensiero se ne ciba,
per tramutarlo in escrementi puzzolenti mentre, la massa..
Sorge il sole, tramonta il sole,
affannandosi verso quel luogo dal quale rispunterà.
In my beginnins its my end…
Moto perpetuo entropico moto perpetuo
Ossimorico entropico moto perpetuo
Tutto sarà polvere nel mare di nulla
Moto perpetuo entropico moto perpetuo
Ossimorico entropico moto perpetuo
Tutto sarà polvere nel mare di nulla
Soffia il vento dal sud gira a settentrione,
passa girando e rigirando il vento,
e sui suoi giri ritorna il vento,
tutti i fiumi scorrono verso il mare,
eppure mai il mare si colma, alla foce scorrono i fiumi,
e di la essi riprendono a scorrere,
tutte le parole sono logore,
e l’uomo non può più usarle,
mai l’occhio è sazio di vedere,
mai l’orecchio è sazio di sentire,
quel che è stato sarà, quel che è fatto si rifarà,
assolutamente nulla di nuovo sotto al sole,
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5. |
21 Grammi
09:50
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21 grammi
Gettalo nell’acqua il tuo pane,
i giorni in cui ne trovi non li conterai.
Spartisci con molti il tuo,
perché in terra ti è ignoto il futuro del male.
La nuvola piena di pioggia,
sopra la terra si scaricherà.
Cade un pezzo di legno a sud a nord,
la dove cade il legno resterà.
Chi sta a guardia del vento non semina,
e chi guarda le nuvole non raccoglie.
Tu che non vedi i meandri del respiro-.
Tu che non vedi il corpo nel ventre della gravida.
Tu che non puoi penetrare l’azione di dio che è tutto.
Semina la tua semente al mattino, e non ti cado la mano fino a sera.
Perché il buon seme non lo conosci,
può essere l’uno o l’altro o tutti.
Vestito mi sono di rose, quali e quante spine sulla pelle,
la pietra angolare della mia innata solitudine,
scossa da rimbombo di vento, o cannone,
scuoto la polvere alla finestra, da giunture che scricchiolano,
lavoro nelle mani rosse di badile,
cemento secco incrosta la schiena, curva,
eppure cuore assetato, pulsa,
sangue raffermo, come schiuma bluastra,
la massa attende inerte un semplice grido, un richiamo,
la massa scivola in strade bollenti, senza fiatare, attende.
C’è una dolcezza nella luce,
e fa beati gli occhi vedere il sole.
L’uomo di lunga vita,
trae i piaceri di tutti i suoi anni.
Tanto più penserà ai giorni della tenebra infiniti.
Tutto passa in un soffio.
Ragazzo goditi la giovinezza,
va dove ti porta il cuore,
va dove va lo sguardo dei tuoi occhi.
Ma sappi che per tutto
Dio ti giudicherà.
E getta via il tormento dal tuo cuore,
strappati dalla carne il dolore.
Perché è un fiato la giovinezza,
e i tuoi neri capelli un soffio.
Acida è la notte, un lampione danzante trema di luce fredda,
un bar abbassa triste la serranda,
i netturbini si preparano a raccogliere resti di ossa, fegati, cuori aridi,
gettati tra i rifiuti di una città che si decompone consumata.
Tempo chiede il quasi morto, tempo ancora per un fragile sorriso,
tempo per una semplice melodia di stelle, che la terra fradicia chiama,
ma lui il quasi vivo annaspa tempo che fugge, con braccia inerti.
Di certo sulle rive dell’Eufrate, una madre intona una dolorosa nenia,
qui dove io vivo, l’avverto nei miei 21 grammi di sentimento.
Un intenso e sperduto amore fluttuante,
si getta dalla rupe del mio silenzio,
come melodia in divenire.
Mia Madre, sapeva spiccare il volo, come respiro da cuore a cuore,
potessi ancora poetare baci sulle guance di lei fragile primula d’inverno,
Ma ora, in questo tempo inutile,
incontro persone mute, spente, fluttuanti, come fango di palude,
alcuni consumano e si riempiono di scorie putrescenti,
altri fingono d’essere oltre il muro dell’assenza,
ma siamo tutti avvinghiati ad un osso scarnificato,
la terra trema, la terra tuona, la terra….
La massa è un unico corpo fremente,
la massa deborda schiumante velenosa tra le pause di un verso.
E poi ci sono questi maledetti invertebrati che governano la massa di fango,
pallina che rotola inconsapevole nell’universo imperscrutabile,
che investono con missioni di pace oscene,
che propagano guerra e dolore come la peste del quattrocento,
topi untori che sguazzano nella melma, e ci costruiscono palazzi d’oro,
dalle fragili sabbiose fondamenta.
Ora ho la certezza che non sarò padre, che non avrò la pensione,
che indugerò sulla soglia indeciso se andare oltre,
che poeterò ogni barlume di speranza,
che mi aggrapperò tremante al di lei ricordo,
aurora flebile suono sommesso di respiro rotto.
E la terra trema, la terra, fradicia, la terra aperta, entrare in lei,
un orgasmo di beatitudine oscena.
Eppure anche questa notte sono spaventosamente vivo…
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6. |
Fame di vento
06:36
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FAME DI VENTO
Vieni dico al mio cuore,
ti ubriachi la gioia felicità ti appaia.
Ed ecco è fumo anche questo
Se rido dico: stai delirando
E se ho una gioia: di cosa sei fatta?
Con vigilante cuore affogavo nel vino la mia carne,
con la guida della sapienza
m’immergevo nella follia.
Se mai mi comparisse
L’in che cosa consista
Felicità in figli d’uomo
E quali siano i modi sotto al cielo
Di procacciarsela
Nei loro giorni scarsi.
M’ingrandiva il mio fare
Case che costruivo e vigne che piantavo.
Giardini e orti che coltivavo,
tutti i frutti dell’albero che crescevo.
Canali irriigui che scavavo
Rugiade sul bosco in fiore che versavo
Schiavi e schiave che mi compravo
La masnada domestica
Le mandrie buoi pecore
Mai così tanto fu di qualcuno
Prima di me in Ierushalem
Cataste di argento e d’ori
Tesori di re e di regni
Ho raccolto cantori e cantatrici
E la delizia dei figli d’uomo
Una caterva di concubine
Ho ammassato potenza
Più di chiunque sia stato
Prima di me in Ierushalem.
Ma la sapienza è rimasta in me
E il tutto dai miei occhi voluto
Io non glielo rifiuto
E mai da nessun piacere
Il cuore ho trattenuto
Pur di tirare gioia
Da tutto il mio penare
E farmi una miglior sorte
Con tanto sforzo
Voltandomi a guardare
Tutto quel che io ho fatto
Mani mie affaticate
Sforzo compiuto a fare
Ecco era fumo tutto vento che ha fame
Nulla è che valga sotto al sole
E mi applicavo a scrutare
Da sapiente pazzia e deliri
Quell’uomo succede al re
Che cosa farà?
Le stesse cose ripeterà
Ma tra sapienza e follia vedo
Avvantaggiarsi sapienza
Valere più della tenebra la luce
Ci sono occhi nella testa di chi sa
Chi non sa nella tenebra cammina
Ma io anche so che c’è
Una sorte per tutti una
E nel mio cuore io dico
Tale la sorte di un idiota tale la mia
Perché tanto sapiente farmi?
Non avrò niente di più
E nel mio cuore dico
È miseria anche questo
Ne di un sapiente ne di un idiota
Avrà memoria il tempo.
In pochi giorni di loro è tutto
Dimenticanza
Sapiente e idiota li avrà
Entrambi morte
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Alessandro Seravalle & Gianni Venturi Italy
Qohelet, non è solo un disco, ma a mio avviso un opera teatrale. Un disco che non ammicca a nessun mercato, che necessita d’essere ascoltato non in sala da pranzo, ma nel silenzio e al buio.
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